giovedì 25 novembre 2010

Allegro molto appassionato


Quando mi guardo allo specchio e quel che vedo è il viso canonico di un folle, mi rilasso, mi sembra che tutto improvvisamente abbia un senso. Sento di stare bene. Mi viene voglia di fare qualsiasi cosa, anche niente, non ho più paura. Sono appagato dalla mia figura, vorrei poterla continuare a vedere, anche riflessa. La tranquillità d’animo che ne deriva è troppo importante, sembra invincibile. Vorrei averla sempre a vista, sento che sarei per sempre sereno e quindi felice. Ma questo non è possibile e devo lasciarla nello specchio. Il suo ricordo viene via con me. Inizialmente è nitido poi pian piano va via e non me ne ricordo neanche più. Chissà come sarebbe la vita con quella calma. Poi, però, mi viene in mente che non avrei il coraggio neanche di uscire, mi è già capitato. Non ho il coraggio. Eppure, sento di stare bene e di essere me stesso. Ma devo cambiare presenza per uscire, devo aggiustarmi i capelli scombinati, devo sentire di risultare più normale. Anche se poi mi chiedo normale per chi? Nell’aggiustarmi sento la felicità che pian piano va via, si allontana, mi saluta da lontano, io la riconosco, la saluto, sono felice per un altro momento e poi … non la vedo più. Ha girato l’angolo. Un giorno vorrei riuscire ad essere più coraggioso. Riuscire a camminare in strada con quella mia figura da folle, in una giornata come quella di oggi in cui la pioggia cade, è già sera e la città si rispecchia su stessa con quella luce giallognola dei lampioni, che tanto mi piace. A terra è ancora bagnato, ci sono le foglie cadute e bisogna stare attenti a non bagnarsi troppo. Sono convinto che la gente non mi guarderebbe in modo strano o almeno spero. Io comunque sarei felice e potrei fare qualsiasi cosa, anche niente. Mi piacerebbe girare per le strade a guardare io gli altri, notare le loro diversità e stare al mondo. Continuerei a girare per tutta la serata fino a notte fonda, fino all’alba del giorno che segue. Fino a esserne sazio, se mai si possa essere sazi di girare a vuoto senza una meta. Avrei nella testa quell’allegro molto appassionato di Mendelssohn e così sarebbe tutto perfetto.
Quando, invece, mi guardo allo specchio e quel che vedo non mi rispecchia, rimango insoddisfatto. Divento triste se prima non lo ero. E non mi va di fare proprio niente. Non mi va di stare al mondo.  Così il tempo si smarrisce ed io con lui. Non so come uscirne e così decido di camminare per la città, tento di riprendermi ma non ci riesco, non mi va neanche di girare e me ne ritorno a casa, triste e sconsolato. Vado a letto presto, domani sarà un altro giorno.

domenica 21 novembre 2010

La dittatura dell’ automobile

di Giancarlo Covino

Qualche tempo fa, le 14:30 circa, assisto a una scena comune dalle nostre parti. Un’automobilista sfreccia in una strada cittadina. Mi passa a poco meno di un metro, mentre attraverso la strada, pur avendomi visto da lontano. Mi considera un ostacolo da superare, qualcosa da scansare senza pensarci più di tanto. Ero solo qualcosa che gli impediva una traiettoria perfetta. Era stanco di tornare a casa così tardi, voleva solo accelerare quanto più fosse possibile, per recuperare tempo. Ne aveva perso troppo. Succede spesso.
Ho pensato che esistessero davvero delle entità che lavorano per scansarci dalle macchine, degli angeli insomma, addetti al traffico come dei vigili. I morti investiti sono pochi se contiamo il numero di idioti che gioca con le traiettorie. Sono pochi.
A questo proposito mi torna sempre in mente quello che invece mi accadde a Berna in Svizzera. Non godo a parlare dei paesi stranieri ma mi sono accorto che, in Italia,  neanche a Milano si cambia musica. A Berna ero concentrato a scattare una fotografia senza accorgermi (perché da noi non avrebbe senso) che ero proprio sull’area del marciapiede in prossimità delle strisce di attraversamento pedonale. Essendo sul ciglio della strada controllai che non arrivassero macchine o che non ci fosse pericolo. C’era solo una macchina in lontananza che arrivava. Guardo nel mirino della macchina fotografica, metto a fuoco e scatto. Mi accorgo che la macchina intanto sta arrivando e che sta decelerando. Si ferma prima delle strisce. Non stavo attraversando, ma avrei potuto decidere di farlo e siccome ero in prossimità delle strisce l’automobilista si era fermato preventivamente. Forse un caso limite di attenzione, sta di fatto che per me, che venivo da un posto dove gli automobilisti non si fermano neanche se stai attraversando sulle strisce e vivevo uno dei miei primi viaggi fuori Italia, rimase un fatto straordinario, una mentalità nuova.
Poi, a Berlino mi resi conto che sulle piste ciclabili non bisogna sostare neanche per poco e attraversandole bisogna essere decisi perché le bici sfrecciano. Loro, i Berlinesi, lo sanno tutti. Le bici a Berlino devono poter sfrecciare. Altre situazioni simili mi sono capitate a Parigi, a Pamplona, a Lisbona eccetera.
In sostanza, in Italia c’è la dittatura delle automobili, sei tu a dover stare attento a non rimetterci la pelle. In Europa (certamente non credo che sia tutto rose e fiori) c’è la dittatura del pedone e delle bici. Gli automobilisti sanno che la precedenza è del pedone e della bicicletta.
In Italia, invece, ti insegnano che cosa è l’abuso di potere e di forza fin da piccolo, ti insegnano a fare sempre uso del potere quando è nelle tue mani e ad imparare a restare zitti quando non lo è. Povera Italia.

P.s.  Barlumi di luce si vedono a Terzigno.

sabato 20 novembre 2010

Gli anni della scuola. Giornata mondiale dei diritti dei bambini




 Spesso mi sono soffermato a ripensare agli anni della scuola dell’obbligo ed in modo particolare alle scuole elementari. Questo perché sin dalle prime volte avevo la sensazione che qualche cosa non andasse in quegli anni, in quei ricordi.
Oggi, credo che pur avendo avuto del tempo libero e pur dedicando del tempo al gioco questo fosse comunque poco, perché credo che un bambino debba giocare di più, debba  stare per più tempo senza pensieri. Dovremmo preoccuparci di più dei bambini preoccupandoci dei giochi che fanno, non limitando il loro tempo di gioco con i compiti a casa, spesso troppi e che poco hanno a che fare con un bambino. Ho cominciato a pensare che anche i voti o i giudizi fossero davvero fuori luogo per dei bambini. Sono fuori luogo.
 Sono gli anni più belli, quelli che non faremo mai fatica a ricordare e non posso pensare che ci sia un bambino di sette anni preoccupato per i compiti. Una vita davanti, la gioia nel cuore, la voglia di fare qualsiasi cosa, l’intero mondo a colazione, pranzo e cena e … qualcuno pensa che è importante iniziare, sul serio, a capire la vita … no, io no.
Poi, ieri, ho letto che in Francia un gruppo di intellettuali ha fatto un appello al governo per eliminare il sistema dei voti dalle scuole elementari,  per evitare a bambini troppo piccoli di dover reggere stress e competizione e ho capito che non ero il solo ad avere una certa idea dell’infanzia. Lo scrittore Daniel Pennac, primo firmatario dell’appello, che per 27 anni ha fatto l’insegnante, dice:
“il voto è la sorgente della paura preventiva, quella che ci portiamo dietro e che non se ne va più via. Il voto è la valutazione. E’ il giudizio. E’ il sospetto che si annida dentro l’alunno, dentro il maestro. Il voto è la vergogna dell’essere somaro. E genera la vergogna dei genitori. E’ la vergogna e la resa dell’insegnante. E per ultimo la resa di una intera società. Che finisce solo per preoccuparsi dell’identità, dell’immagine. Di un fantasma.”
Dice anche che i professori che lo hanno aiutato sono stati quelli che lo volevano conoscere, che cercavano di fargli amare la materia che insegnavano e non quelli che volevano solo valutarlo. E’ un discorso valido anche per una scuola media o superiore, per quanto mi riguarda.
Infine mi accorgo di due cose.
 La prima è che proprio nel 2009 in Italia la Gelmini reintroduce, addirittura, il voto da 1 a 10, al posto del voto attraverso un giudizio come succedeva dal 1977.
La seconda è che non bisognava aspettare i francesi per teorizzare una scuola più serena per i bambini, perché già nel 1907 Maria Montessori professava proprio questo, fondando la sua prima “casa dei bambini” a Roma, niente voti e niente compiti a casa.
Non era difficile. Bastava guardarsi le spalle.

P. s. In Italia anche prima del 1977 la valutazione alle scuole elementari era in voti da 1 a 10, con precisione è nel 1923, con il partito fascista già al potere, che si sceglieva questo tipo di valutazione. Due anni dopo ebbe inizio la dittatura fascista.