Quando mi guardo allo specchio
e quel che vedo è il viso canonico di un folle, mi rilasso, mi sembra che tutto
improvvisamente abbia un senso. Sento di stare bene. Mi viene voglia di fare
qualsiasi cosa, anche niente, non ho più paura. Sono appagato dalla mia figura,
vorrei poterla continuare a vedere, anche riflessa. La tranquillità d’animo che
ne deriva è troppo importante, sembra invincibile. Vorrei averla sempre a
vista, sento che sarei per sempre sereno e quindi felice. Ma questo non è
possibile e devo lasciarla nello specchio. Il suo ricordo viene via con me.
Inizialmente è nitido poi pian piano va via e non me ne ricordo neanche più.
Chissà come sarebbe la vita con quella calma. Poi, però, mi viene in mente che
non avrei il coraggio neanche di uscire, mi è già capitato. Non ho il coraggio.
Eppure, sento di stare bene e di essere me stesso. Ma devo cambiare presenza
per uscire, devo aggiustarmi i capelli scombinati, devo sentire di risultare
più normale. Anche se poi mi chiedo normale per chi? Nell’aggiustarmi sento la
felicità che pian piano va via, si allontana, mi saluta da lontano, io la
riconosco, la saluto, sono felice per un altro momento e poi … non la vedo più.
Ha girato l’angolo. Un giorno vorrei riuscire ad essere più coraggioso.
Riuscire a camminare in strada con quella mia figura da folle, in una giornata
come quella di oggi in cui la pioggia cade, è già sera e la città si rispecchia
su stessa con quella luce giallognola dei lampioni, che tanto mi piace. A terra
è ancora bagnato, ci sono le foglie cadute e bisogna stare attenti a non
bagnarsi troppo. Sono convinto che la gente non mi guarderebbe in modo strano o
almeno spero. Io comunque sarei felice e potrei fare qualsiasi cosa, anche
niente. Mi piacerebbe girare per le strade a guardare io gli altri, notare le
loro diversità e stare al mondo. Continuerei a girare per tutta la serata fino
a notte fonda, fino all’alba del giorno che segue. Fino a esserne sazio, se mai
si possa essere sazi di girare a vuoto senza una meta. Avrei nella testa quell’allegro molto appassionato di Mendelssohn
e così sarebbe tutto perfetto.
Quando, invece, mi guardo
allo specchio e quel che vedo non mi rispecchia, rimango insoddisfatto. Divento
triste se prima non lo ero. E non mi va di fare proprio niente. Non mi va di
stare al mondo. Così il tempo si
smarrisce ed io con lui. Non so come uscirne e così decido di camminare per la
città, tento di riprendermi ma non ci riesco, non mi va neanche di girare e me
ne ritorno a casa, triste e sconsolato. Vado a letto presto, domani sarà un
altro giorno.
giovedì 25 novembre 2010
domenica 21 novembre 2010
La dittatura dell’ automobile
di Giancarlo Covino |
Qualche tempo fa, le 14:30
circa, assisto a una scena comune dalle nostre parti. Un’automobilista sfreccia
in una strada cittadina. Mi passa a poco meno di un metro, mentre attraverso la
strada, pur avendomi visto da lontano. Mi considera un ostacolo da superare,
qualcosa da scansare senza pensarci più di tanto. Ero solo qualcosa che gli
impediva una traiettoria perfetta. Era stanco di tornare a casa così tardi,
voleva solo accelerare quanto più fosse possibile, per recuperare tempo. Ne
aveva perso troppo. Succede spesso.
Ho pensato che esistessero
davvero delle entità che lavorano per scansarci dalle macchine, degli angeli
insomma, addetti al traffico come dei vigili. I morti investiti sono pochi se
contiamo il numero di idioti che gioca con le traiettorie. Sono pochi.
A questo proposito mi torna
sempre in mente quello che invece mi accadde a Berna in Svizzera. Non godo a
parlare dei paesi stranieri ma mi sono accorto che, in Italia, neanche a Milano si cambia musica. A Berna ero
concentrato a scattare una fotografia senza accorgermi (perché da noi non
avrebbe senso) che ero proprio sull’area del marciapiede in prossimità delle
strisce di attraversamento pedonale. Essendo sul ciglio della strada controllai
che non arrivassero macchine o che non ci fosse pericolo. C’era solo una
macchina in lontananza che arrivava. Guardo nel mirino della macchina
fotografica, metto a fuoco e scatto. Mi accorgo che la macchina intanto sta
arrivando e che sta decelerando. Si ferma prima delle strisce. Non stavo
attraversando, ma avrei potuto decidere di farlo e siccome ero in prossimità
delle strisce l’automobilista si era fermato preventivamente. Forse un caso
limite di attenzione, sta di fatto che per me, che venivo da un posto dove gli
automobilisti non si fermano neanche se stai attraversando sulle strisce e
vivevo uno dei miei primi viaggi fuori Italia, rimase un fatto straordinario,
una mentalità nuova.
Poi, a Berlino mi resi conto
che sulle piste ciclabili non bisogna sostare neanche per poco e
attraversandole bisogna essere decisi perché le bici sfrecciano. Loro, i
Berlinesi, lo sanno tutti. Le bici a Berlino devono poter sfrecciare. Altre
situazioni simili mi sono capitate a Parigi, a Pamplona, a Lisbona eccetera.
In sostanza, in Italia c’è la
dittatura delle automobili, sei tu a dover stare attento a non rimetterci la
pelle. In Europa (certamente non credo che sia tutto rose e fiori) c’è la
dittatura del pedone e delle bici. Gli automobilisti sanno che la precedenza è del
pedone e della bicicletta.
In Italia, invece, ti insegnano che cosa è
l’abuso di potere e di forza fin da piccolo, ti insegnano a fare sempre uso del
potere quando è nelle tue mani e ad imparare a restare zitti quando non lo è.
Povera Italia.
P.s. Barlumi di luce si vedono a Terzigno.
sabato 20 novembre 2010
Gli anni della scuola. Giornata mondiale dei diritti dei bambini
Spesso mi sono soffermato a
ripensare agli anni della scuola dell’obbligo ed in modo particolare alle
scuole elementari. Questo perché sin dalle prime volte avevo la sensazione che
qualche cosa non andasse in quegli anni, in quei ricordi.
Oggi, credo che pur avendo
avuto del tempo libero e pur dedicando del tempo al gioco questo fosse comunque
poco, perché credo che un bambino debba giocare di più, debba stare per più tempo senza pensieri. Dovremmo
preoccuparci di più dei bambini preoccupandoci dei giochi che fanno, non
limitando il loro tempo di gioco con i compiti a casa, spesso troppi e che poco
hanno a che fare con un bambino. Ho cominciato a pensare che anche i voti o i
giudizi fossero davvero fuori luogo per dei bambini. Sono fuori luogo.
Sono gli anni più belli, quelli che non faremo
mai fatica a ricordare e non posso pensare che ci sia un bambino di sette anni
preoccupato per i compiti. Una vita davanti, la gioia nel cuore, la voglia di
fare qualsiasi cosa, l’intero mondo a colazione, pranzo e cena e … qualcuno pensa
che è importante iniziare, sul serio, a capire la vita … no, io no.
Poi, ieri, ho letto che in
Francia un gruppo di intellettuali ha fatto un appello al governo per eliminare
il sistema dei voti dalle scuole elementari,
per evitare a bambini troppo piccoli di dover reggere stress e
competizione e ho capito che non ero il solo ad avere una certa idea
dell’infanzia. Lo scrittore Daniel Pennac, primo firmatario dell’appello, che
per 27 anni ha fatto l’insegnante, dice:
“il voto è la sorgente della
paura preventiva, quella che ci portiamo dietro e che non se ne va più via. Il
voto è la valutazione. E’ il giudizio. E’ il sospetto che si annida dentro
l’alunno, dentro il maestro. Il voto è la vergogna dell’essere somaro. E genera
la vergogna dei genitori. E’ la vergogna e la resa dell’insegnante. E per
ultimo la resa di una intera società. Che finisce solo per preoccuparsi
dell’identità, dell’immagine. Di un fantasma.”
Dice anche che i professori che
lo hanno aiutato sono stati quelli che lo volevano conoscere, che cercavano di
fargli amare la materia che insegnavano e non quelli che volevano solo
valutarlo. E’ un discorso valido anche per una scuola media o superiore, per
quanto mi riguarda.
Infine mi accorgo di due cose.
La prima è che proprio nel 2009 in Italia la
Gelmini reintroduce, addirittura, il voto da 1 a 10, al posto del voto
attraverso un giudizio come succedeva dal 1977.
La seconda è che non bisognava
aspettare i francesi per teorizzare una scuola più serena per i bambini, perché
già nel 1907 Maria Montessori professava proprio questo, fondando la sua prima
“casa dei bambini” a Roma, niente voti e niente compiti a casa.
Non era difficile. Bastava
guardarsi le spalle.
P. s. In Italia anche prima del
1977 la valutazione alle scuole elementari era in voti da 1 a 10, con
precisione è nel 1923, con il partito fascista già al potere, che si sceglieva
questo tipo di valutazione. Due anni dopo ebbe inizio la dittatura fascista.
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